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Mentre l’omosessualità viene criminalizzata in un numero crescente di Paesi, anche in Europa cresce la repressione sotto regimi conservatori, Italia inclusa. Ce ne parla Francesco Lepore, studioso e autore di saggi sulla mariologia e la spiritualità cristiana in epoca medievale e moderna in questo articolo per LINKIESTA

Ideata dall’attivista martinicano Louis-George Tin, celebrata per la prima volta il 17 maggio 2005 con riferimento esplicito alla sola omofobia e istituita ufficialmente a livello europeo il 26 aprile 2007, la Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia è osservata in oltre centrotrenta Paesi del mondo. È solo da dieci anni a questa parte che la ricorrenza, a seguito degli espliciti riferimenti alla transfobia e alla bifobia, rispettivamente aggiunte nel 2009 e nel 2015, ha assunto l’attuale denominazione acronimica Idahobit (International Day Against Homophobia, Biphobia and Transphobia).

Come si sa, Louis-George Tin scelse il 17 maggio come data annua di tale ricorrenza per ragioni di natura commemorativa e fortemente simbolica: risale, infatti, al 17 maggio 1990 la decisione dell’Organizzazione mondiale della Sanità di rimuovere dal novero delle malattie mentali l’omosessualità, opportunamente definita «variante naturale del comportamento umano» e «caratteristica della personalità».

Molto tardiva, invece, la presa di posizione della medesima agenzia specializzata delle Nazioni Unite nei riguardi della disforia di genere, rinominata incongruenza di genere e intesa quale disaccordo tra genere assegnato alla nascita e identità di genere: solo il 18 ottobre 2018 è stata infatti depatologizzata dall’Oms, che ne ha spostato la relativa diagnosi, all’interno dell’ICD-11 (undicesima edizione dell’International Classification of Diseases in vigore dal 1° gennaio 2022), dalla sezione Disturbi mentali al nuovo capitolo intitolato Condizioni associate alla salute sessuale.

Francesco Lepore (foto di Roger Nicotera)

A dispetto di entrambe le decisioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità, l’omobitransfobia è ben lontana dall’essere debellata; anzi, le stesse conclusioni dell’importante organismo internazionale continuano a essere rigettate da chi promuove e attua le cosiddette terapie di conversione o di riorientamento sessuale, che, oltre a essere anti-scientifiche, assumono caratteri criminosi soprattutto se praticate su minori.

Non si può inoltre dimenticare che in sessantatré Paesi – sessantaquattro aggiungendo la situazione de facto dell’Egitto – i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso sono considerati reato e puniti con pene carcerarie fino all’ergastolo per legge o de facto. In sei Paesi vige inoltre la pena di morte, che è applicata sull’intero territorio statale in Arabia Saudita, Iran, Yemen, a livello provinciale in Nigeria e Somalia, per specifici casi (rapporti omosessuali con persone o HIV positive, o ultrasettantacinquenni, o minori, o con disabilità) in Uganda. In altri sei Paesi, infine, cioè Afghanistan, Brunei, Emirati Arabi, Mauritania, Pakistan, Qatar, ne è contemplata la possibilità, anche se da tempo non è irrogata per sodomia.

Va inoltre considerato che il numero complessivo di Paesi criminalizzanti l’omosessualità, sceso a sessantadue nel 2024, è risalito a sessantatré nel marzo 2025 con la reintroduzione di pene carcerarie, per quanto ridotte a un massimo di cinque anni, nello Stato insulare di Trinidad e Tobago.

Secondo Yuri Guaiana, quello attuale è «un momento storico drammatico per i diritti Lgbt+. Per la prima volta, il numero di Paesi che criminalizzano l’omosessualità sta aumentando anziché diminuire, mentre in Europa le libertà democratiche e i diritti Lgbt+ sono sempre più sotto attacco come parte di una strategia coordinata, che riflette il manuale russo di repressione. In Ungheria, le leggi di Orbán hanno imposto il primo divieto dei Pride nell’Unione europea e cancellato le protezioni basate sull’identità di genere dalla legge, limitando drasticamente la libertà di espressione e minacciando i valori fondamentali dell’Ue»

Inoltre, come sottolineato dallo stesso attivista nonché segretario di Certi Diritti e di Lgbti Liberals of Europe, «è particolarmente preoccupante che l’Italia sia l’unico Paese dell’Europa occidentale ad allinearsi con queste dinamiche pericolose. Il governo Meloni continua ad attuare politiche discriminatorie nei confronti delle persone Lgbt+ e delle famiglie arcobaleno, mentre, sulla scorta della mozione Sasso approvata alla Commissione Cultura, scienza e istruzione, della Camera dei deputati, alcune proposte di legge mirano a censurare nelle scuole italiane qualsiasi discussione sull’identità di genere e l’orientamento sessuale».

Un quadro desolante del Bel Paese è quello, d’altra parte, tracciato dalla diciassettesima Rainbow Map. Presentato ufficialmente da Ilga-Europe il 14 maggio e relativo alla situazione delle persone Lgbt+ nei quarantasette Stati del Consiglio d’Europa, in una, con Bielorussia e Federazione Russa, il documento colloca infatti l’Italia al trentacinquesimo posto.

Su una scala di riferimento – basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti – che va da 0 a cento per cento, sempre l’Italia si attesta inoltre al 24,21 per cento, tra Lettonia e Lituania, sopravanzando di poco Paesi come l’Ungheria, la Bulgaria e la Polonia. E di «caso Italia» parla il presidente di Antinoo Arcigay Napoli, che, proprio il 14 maggio, ha guidato una delegazione di rappresentanti di associazioni a Bruxelles e organizzato, grazie al fattivo impegno della vicepresidente del Parlamento europeo, Pina Picierno, una serie di incontri.

Il tutto al fine sia di illustrare le maggiori criticità vissute dalla comunità Lgbt+ italiana, in particolare dalle famiglie omogenitoriali e dalla popolazione trans, sia di valutare il potenziale contributo dell’Ue nella difesa dei diritti messi a repentaglio dall’attuale governo di centro-destra.

Particolare attenzione è stata poi riservata all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, in riferimento al cui operato è stata lamentata una mancanza di reale indipendenza, autonomia, trasparenza, in palese violazione di quanto richiesto dalle direttive europee.

Proprio sulla «situazione inaccettabile dell’Unar», Pina Picierno, per la quale «i partiti dell’estrema destra europea stanno alimentando un clima ostile verso la comunità Lgbt+, mettendo a rischio anni di battaglie e di conquiste civili», ha annunciato la predisposizione di «un’interrogazione parlamentare da presentare alla Commissione europea». Secondo la vicepresidente dell’Europarlamento, è infatti «essenziale che la Commissione assuma un ruolo attivo e tempestivo su questo tema, anche alla luce dell’elaborazione della prossima strategia per la tutela e la promozione dei diritti Lgbt+».

Ampia soddisfazione per l’esito della giornata è stata espressa da Antonello Sannino, che ha anche personalmente incontrato i referenti della Commissione europea Carles Dedeu Fontcuberta e Nadege Defrere.

A Linkiesta.it l’attivista partenopeo ha spiegato di essersi mosso con «l’obiettivo di restituire primato alla politica. Vanno indubbiamente bene le aule dei tribunali, ma i diritti non possono essere riconosciuti per concessione di un giudice, a maggior ragione in un sistema come il nostro che non è di Common Law. Inoltre, abbiamo provato a utilizzare una strategia, dove, dall’alto l’Europa e dal basso i sindaci, quindi i soggetti istituzionalmente più prossimi alla cittadinanza, possano fare pressione sulla classe dirigente e sul Parlamento affinché siano tutelati i diritti sociali, civili, umani, delle persone Lgbt+ e riconosciuti quelli non ancora tali».

Parole, queste, che sono da leggere alla luce del monito di Pina Picierno, secondo la quale «in vista della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia del 17 maggio, è essenziale che le istituzioni europee dimostrino una chiara volontà politica nel contrastare ogni forma di odio e discriminazione, promuovendo un’Europa davvero inclusiva e rispettosa della dignità di tutte e tutti».

Francesco Lepore per LINKIESTA