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di Sergio Raimondi
giornalista

Una delle conseguenze del dramma afghano è un paradosso che riguarda l’Europa. La caduta di Kabul, la “fuga” precipitosa degli americani, la presa di potere dei talebani hanno come dato un soffio vitale all’anima morta della politica estera della Ue. In prima linea da settimane, il premier italiano Mario Draghi e il presidente francese Emmanuelle Macron. Ideatori di un G20 straordinario proprio sull’Afghanistan, che appare ogni giorno di più di difficile attuazione. Troppi sono gli attori sulla scena mondiale, a vario titolo interessati alla evoluzione (?) della situazione afghana. E da parte sua – e non è certo una novità – anche questa volta l’Europa si presenta divisa. L’idea del G20 trova formalmente disponibili i maggiori partner europei, ma si tratta di cinque, o forse dieci, Paesi su 27. Al punto che la premessa resasi necessaria sarebbe quella di non chiedere l’unanimità dei consensi su eventuali decisioni di Bruxelles, ma solo la maggioranza. Al di là degli obiettivi dichiarati e paludati di nobili intenti, ciò che muove l’iniziativa realisticamente è una sola: la preoccupazione che sul Vecchio Continente possa abbattersi un’altra ondata di profughi. Il vero tema è quello dell’accoglienza. Argomento sempre ostico e divisivo, per il rifiuto permanente di alcuni Stati membri di accogliere le quote loro assegnate di migranti (politici o economici che fossero).

Tutto rende difficile il risveglio tardivo di una Europa che nel corso dei decenni non è stata capace di darsi una politica comune su questo come su altri argomenti: difesa, intelligence e bilancio comune, ne sono solo alcuni esempi. Velleitario improvvisare un salto triplo dopo anni di inerzia. Ciò non vuol dire che la preoccupazione sia infondata. Le difficoltà dovute alla pandemia, le conseguenze sulle economie continentali, l’ulteriore indebolimento e le insofferenze delle opinioni pubbliche rendono ancora più drammatico lo scenario di una Europa che potrebbe essere chiamata ad accogliere un numero impensabile e imprecisato di disperati messi in fuga da un Paese martoriato ed ora di nuovo in mano ai talebani, intenzionati ad affermarsi al potere e governare il Paese secondo le regole della Sharìa.

Basti pensare soltanto alla sorte degli hazara: costituiscono il 10 per cento della popolazione afghana, ma sono una minoranza di etnia sciita e perciò perseguitata, massacrata e dispersa dalla loro regione collocata tra le montagne nel cuore dell’Afghanistan. Per loro si sono chiuse le porte del Pakistan, e sono in fuga verso Iran e Turchia con la speranza di raggiungere l’Europa. E non è che l’inizio.

Giusto chiedersi quale sarà il destino di questa gente che non vuole vivere sotto un governo strettamente teocratico. L’Europa potrà pure avere buone quanto egoistiche intenzioni ma non basterebbe lo stesso. Russia, Cina, India, Pakistan e altri Paesi confinanti sembrano aver scelto la strada dell’attendismo: restare alla finestra a guardare l’evolversi della situazione politica per poi stringere alleanze strategiche ed economiche con i veri Signori afghani. Che dal canto loro lanciano segnali contrastanti. C’è un’ala apparentemente dialogante. “Per favore, l’Italia riconosca il nostro governo islamico e riapra l’ambasciata a Kabul. Il vostro è un Paese importantissimo per noi, per la sua cultura e la storia della filosofia. Questo per noi è essenziale”, diceva in una intervista qualche giorno fa Zabiullah Mujahid, il portavoce degli studenti coranici. Senza nascondere che le donne non potranno diventare ministro, ma lavorare nei ministeri, nella polizia, nella magistratura ma come assistenti, e studiare anche nelle università e andare in giro per il mondo “ad onorare l’Afghanistan”. Ma anche di puntare tutto o quasi sugli investimenti cinesi per la rinascita economica del Paese.  Ma c’è anche l’ala più militarista che si muove lontano da Kabul, troppo sotto la lente d’ingrandimento mondiale, e che si muove tra campagne e montagne nelle regioni più disperse e dove non si preoccupa più di tanto di rapire donne o sterminare oppositori e minoranze etniche e religiose.

E allora forse è questa la vera impresa di una Europa che voglia seriamente misurarsi con la nuova realtà afghana e competere con le altre potenze del Globo. E scongiurare l’ennesimo esodo. Capire chi sono i talebani versione 2021. Dialogare con loro è indispensabile con un lavoro diplomatico lungo e paziente perché si possa sperare di ottenere garanzie sui futuri diritti civili del popolo afghano. Impresa difficile, certo, ma che sarebbe folle accompagnare con l’idea di formare – adesso, quasi a mo’ di minaccia nemmeno troppo velata ma sicuramente patetica – un esercito di 50 mila uomini,  come proposto da Josep Borrell, il ministro degli Esteri europeo, che funga da forza di intervento ufficialmente a scopi difensivi. Ma davvero l’Europa dopo decenni di assenza, prigioniera delle politiche economiche restrittive-frugali, e di una sorta di sharìa laica fatta di regolamenti bizantini, come quelle  sulle dimensioni delle vongole, pensa di riempire il vuoto lasciato dal disimpegno Usa, o magari pensare di esportare democrazia lì dove solo il concetto è sconosciuto? Vent’anni di guerre disastrose volute dagli Usa, in Afghanistan prima e in Iraq poi, non ci hanno insegnato nulla?

In fondo, dice bene Zabiullah Mujahid, sincero o meno che sia: è la cultura che va “esportata”, quella del dialogo, della comprensione, della condivisione e dell’accettazione tra popoli diversi. Non altro.

Foto Ansa